Parini e l’illuminismo lombardo (1961)

Recensione a Giuseppe Petronio, Parini e l’illuminismo lombardo (Milano, Feltrinelli, 1961), «La Rassegna della letteratura italiana», a. 65° s. VII, n. 2, Firenze, maggio-agosto 1961, poi con il titolo Parini e l’illuminismo lombardo in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit. (1963 ed edizioni successive).

PARINI E L’ILLUMINISMO LOMBARDO

Il nuovo saggio pariniano del Petronio[1] vuol essere una intera ricostruzione della personalità e dell’opera pariniana nella sua linea di sviluppo entro la storia dell’illuminismo lombardo.

Partendo dall’esame delle Rime di Ripano Eupilino, ricondotte alle forme di una prima Arcadia isolata rispetto agli sviluppi dell’Arcadia matura e frutto di un sostanziale isolamento del giovane poeta nella cultura ideologica e letteraria del suo tempo (e dunque sostanzialmente posizione di «arcade arretrato al Cinquecento» secondo la nota definizione carducciana), il Petronio riconosce la prima vera impostazione della poetica pariniana nell’adesione del poeta all’Accademia dei Trasformati e ai motivi dell’illuminismo e del sensismo nei componimenti scritti per le adunanze di quella Accademia e nelle prime Odi dove piú esplicito si fa l’impegno poetico-civile e sociale del Parini e la sua poetica si chiarisce in una nuova volontà illuministica poetico-pratica che carica di nuova e storica tensione il vecchio binomio classicistico dell’utile dulci.

Il critico rileva cosí la tendenza classicistico-moderna di un linguaggio poetico nuovo e rivoluzionario rispetto all’Arcadia anche se contenuto in un equilibrio in cui l’elemento classicistico (con la sua eredità arcadica) può diventare, se reso troppo autonomo, limite della stessa notata novità. L’impegno illuministico concretato nelle condizioni della cultura illuministica lombarda e nella versione moderata del Parini (di cui si illustrano i motivi progressivi e coraggiosi e le remore di incomprensione per i motivi piú rivoluzionari dell’illuminismo francese) si sviluppa nelle prime due parti del Giorno, poema didattico-satirico in cui il poeta riprende, a nuovo livello, tendenze note della letteratura settecentesca e di cui il Petronio descrive i risultati piú coerenti e intonati a quell’impegno, ma insieme i limiti sia nello «scialbore» del protagonista (sí che par piuttosto doversi dire che il vero protagonista del poemetto sia lo stesso Parini), sia in quelle parti meno funzionali all’impegno centrale e che il critico qualifica come «riposi poetici».

Poi (limitato in un ambito piú letterario-settecentesco il Parini dei componimenti minori su cui tanto insisteva il Petrini) l’esame delle correzioni alle prime Odi e al Mattino (in cui lo studioso verifica una crescita di cura letteraria e classicistica e una inerente diminuzione dell’impegno combattivo e realistico) riconduce il discorso ai rapporti del Parini con la cultura milanese e alla costatazione di un progressivo discostarsi di lui dalle posizioni illuministiche piú combattive che trova riscontro nel generale indebolirsi della tensione progressiva del gruppo illuministico lombardo e si traduce nella difficoltà pariniana di completare il Giorno, nella poesia piú debole ed evasiva delle due ultime parti, nella impostazione delle ultime Odi, di cui si dichiara l’altezza poetica, ma insieme il prevalere in esse di un vero e proprio neoclassicismo e di un isolamento del poeta, chiuso nella proposta della propria alta figura morale e poetica.

Tale linea che il Petronio propone come frutto di una impostazione critica nuova e integralmente storica, avversa insieme alle «deformazioni impressionistiche e alle cincischiature stilistiche», non mi pare in realtà spostare di molto quella che risultava già da posizioni critiche precedenti, se si ricordino almeno proprio i miei studi pariniani sia già nel capitolo pariniano del Preromanticismo italiano, del ’48, sia, e piú, nei saggi Parini e l’illuminismo (ripubblicato nel volume Carducci e altri saggi, Torino, 1960) e La poesia del Parini e il neoclassicismo.

La novità andrà dunque cercata nella maggiore accentuazione dell’accordo fra arco storico-ideologico e arco poetico, fra evoluzione pariniana ed evoluzione dell’illuminismo lombardo e nelle verifiche particolari degli esami dei singoli momenti dello sviluppo pariniano.

Devo dire però francamente che, malgrado il riconoscimento di un impegno di ricostruzione dinamica assai alacre e attiva, e malgrado varie osservazioni e rilievi stimolanti sulla poetica illuministica pariniana, o sulle correzioni delle prime Odi, i risultati del libro mi sembrano piuttosto sproporzionati rispetto alla ambizione rinnovatrice e che (a parte l’ovvietà di alcune parti, come quella circa il protagonista del Giorno o certi paragoni con poeti minori) la resa critica della realtà poetica pariniana mi sembra piuttosto debole.

E, pur alieno da «deformazioni impressionistiche» (qualifica poi piuttosto azzardata quando si rivolge, come pare, a certe finissime pagine del Momigliano sulla Notte) e da «cincischiature stilistiche» (che tali sono negli esercizi piú scolastici e unilaterali in tal direzione, ma che non escludono la liceità di un centrale e intero esame della resa espressiva di un poeta), mi par di avvertire in tutto il libro un certo scarso interesse per la poesia, troppo rivista prevalentemente nei suoi elementi contenutistici e troppo fuggevolmente approfondita là dove essa è piú forte.

Significativo in tal senso è il fatto che mentre il Petronio dedica pagine e pagine all’illustrazione delle prime Odi, cosí nuove e vive, ma certamente meno piene di un alto valore poetico, alle ultime Odi, che pur considera alta poesia, è riservato un capitoletto assai frettoloso e poco illuminante.

Si ha poi l’impressione che a questo punto decisivo il giudizio prima cosí svelto e risoluto del Petronio sia divenuto incerto ed ambiguo e che in realtà la sua tesi piú vera (e coerente all’impostazione di una assoluta coincidenza fra arco ideologico e arco poetico) potesse essere una valutazione limitativa delle ultime Odi: dato che, da tal punto di vista, par difficile mantenere l’immagine alta delle ultime odi se in queste viene a mancare l’elemento nuovo e attivo essenziale all’equilibrio pariniano «tra letteratura e volontà di rinnovamento civile, tra una concezione letteraria e tradizionale della poesia e una nuova, nata da una ragionata adesione all’illuminismo e alle riforme teresiane e giuseppine».

E ambigua risulta ancora questa giustificazione del positivo di una lirica prima detta «atemporale»: «però, proprio perché Parini è sempre un uomo vivo, atemporale questa sua poesia, anche quest’ultima, non è, ché anzi è tutta cosa del Settecento, non solo per le caratteristiche che già si sono indicate – razionalità, influsso del sensismo, gusto oraziano –, ma per un’aderenza piena allo spirito piú profondo del secolo». Dove il critico pare avvertire l’insufficienza della tesi che sarebbe piú coerente alla sua impostazione generale, ma realizza tale coscienza in una formula evidentemente generica e con una rappresentazione troppo generica e indiscriminata dello spirito del Settecento.

Né convince l’affermazione poi, secondo cui lo stile pariniano anche nelle ultime odi rimarrebbe sostanzialmente lo stesso.

Ma tutto il discorso sulle ultime odi è estremamente contorto né ci aiuta molto a meglio comprenderle la conclusione che le afferma «singolarmente ricche di contraddizioni profonde: espressione della nascente società borghese nel loro scoperto autobiografismo, nel loro razionalismo, nel loro sostituire al vecchio eroe mitico e aristocratico il borghese Parini... ma nello stesso tempo, nella loro solitudine tra malinconica e orgogliosa, nella chiusura del loro moralismo non piú aperto ai problemi vivi della società, segno dei limiti della nostra società borghese». Anche perché questa diagnosi «borghese» appare troppo lata e generica se può giungere dal Parini alla situazione nostra contemporanea.

D’altra parte sarà pur da notare che nelle ultime Odi di fronte al mondo dei nobili sciocchi e oziosi della Notte (estrema propaggine e moltiplicazione della figura del giovin signore) il Parini crea figure vive di aristocratici e di dame coerenti a quella riforma morale che nell’epistola al De Martini egli si vantava di aver agevolato con le prime parti del Giorno e questo mondo ricco di affetti, di senso della poesia e della civiltà, bennato e sensibile agli insegnamenti del poeta, ha pure una sua vitalità e nel suo conforto pur si alimenta la fiducia del poeta nel valore dei suoi ideali etico-poetici anche se piú spostati in direzione neoclassica. E il poeta non rimane totalmente solo né privo di un’azione almeno in quell’ambito di una parte della nobiltà milanese che (se non si accetti la diagnosi drastica di Stendhal all’inizio della Chartreuse) si veniva pure aprendo (col concorso poi dell’epoca napoleonica e dell’azione foscoliana) a quell’unione attiva e feconda fra nobili e borghesi che è caratteristica del romanticismo lombardo.

E la stessa valutazione del neoclassicismo come tendenza tutta accademica e negativa (come in effetti fu nei suoi esiti piú rigidi) andrà pur limitata nella costatazione che esigenze e motivi neoclassici pur collaborarono anche positivamente (reazione al concetto troppo praticistico della poesia illuministica, senso della forma, della lingua poetica, del valore della tradizione nuovamente fecondato da elementi preromantici) alla genesi dell’«alta» poesia dell’ultimo Parini e poi (su di un’onda piú lunga e complessa) a quella della poesia foscoliana.

È ovvio che a me paia piú legittima e storica la giustificazione delle ultime odi secondo il ritmo piú complesso di gusto, di animo, di storia, che io sinteticamente proposi nei saggi sopraindicati e che non è il caso di qui riproporre ampiamente: allentamento dell’impegno illuministico, ma non perdita delle fondamentali persuasioni pariniane (ragione-natura, piacere-virtú) trasposte (in relazione anche con la fiducia, se si vuole illusoria ma non meno intimamente operante, in una battaglia riformatrice in gran parte vinta e in relazione con lo stimolo del gusto neoclassico e del suo etico corrispettivo) in una poetica piú distesa ed armonica, piú rasserenata e mitica e non perciò solo letteraria e formalistica.

Né per quel che riguarda la storia dell’ultima evoluzione pariniana in rapporto con quella della cultura lombarda contemporanea mi pare che l’esempio di Pietro Verri sia preciso (basti pensare al suo atteggiamento di comprensione e simpatia di fronte alla rivoluzione francese e persino ai suoi «eccessi» necessari), mentre per il Parini si sarebbe dovuto pur considerare il suo atteggiamento di fronte all’ingresso dei francesi in Lombardia e alla costituzione della Cisalpina: donde poi le ragioni della mitizzazione foscoliana nell’Ortis o di quella montiana nella Mascheroniana.

Altre osservazioni vengono suggerite dalle altre parti della monografia del Petronio.

Per l’esame delle Rime di Ripano Eupilino par cosí esagerata la tesi dell’assoluto isolamento del giovane poeta almeno per quanto concerne la sua sperimentazione di forme arcadiche: basti pensare a quell’uso dell’endecasillabo catulliano (già rilevato dallo stesso Carducci) mutuato al Rolli. Ed esagerata mi pare risulti l’importanza attribuita all’incontro con i Trasformati (un esame piú vicino delle precise tendenze ed offerte di quell’accademia sarebbe necessario), dato che sulla tematica generica proposta nelle loro adunanze il Parini porta uno svolgimento tutto suo e ben piú audace rispetto alle idee di quell’accademia.

Quanto al Giorno troppo limitata appare la valutazione della componente rococò e di quell’elemento di fascino dell’eleganza della società nobiliare satireggiata su cui insisterono Petrini e Momigliano: donde i limiti delle letture critiche di brani come quello della «vergine cuccia», e troppo divisa la considerazione dei «riposi» poetici o di quegli esiti di sapore fiabesco (la favola del piacere) che sono intimamente coerenti con la gamma complessa della poesia pariniana se non la si vuol ridurre solo alle sue punte polemiche e ideologiche.

Infine l’insistenza eccessiva sui limiti della novità realistica della poesia e del linguaggio pariniano (un’audacia innovatrice che poi ripiegherebbe e si smorzerebbe) può condurre ad una ipervalutazione delle prime odi (a cui concretamente, come ho detto, va l’attenzione piú lunga e minuta dell’esame particolare) e ad un risultato storicamente poco accettabile: il pericolo di una immagine piú desiderata che reale e la forzatura da parte di una poetica del critico rispetto a quella effettiva con cui il Parini raggiunse concretamente la sua poesia maggiore fra Giorno e ultime Odi solo assimilando in forme piú eleganti e poetiche la forza delle sue prime prove piú aperte e programmatiche. E sol cosí egli operò entro la sua situazione concreta personale e storica, che è quella dell’illuminismo classicistico-sensistico e neoclassico e non quello del romanticismo 1816 o del realismo otto-novecentesco.

Quanto alla visione generale dei momenti settecenteschi entro cui il Petronio colloca il Parini mi pare che, fortemente e giustamente accentuata l’importanza del momento illuministico, il critico tenda troppo a deprimere il significato e la validità particolare degli altri momenti: sia dissolvendo il momento preromantico unicamente in uno stile (lo stile che egli chiama sbrigativamente nordico o ossianesco; e ciò è comunque troppo poco anche qualora si voglia considerare il preromanticismo solo come un aspetto della civiltà illuministica), sia troppo svuotando l’Arcadia della forza e del significato dei suoi elementi storici di razionalismo preilluministico.

D’accordo con lui nel rifiutare una facile continuità fra Arcadia e illuminismo anche in sede di poetica (e d’accordo nel segnare l’importanza di novità del sensismo) e quindi nel rifiutare la tesi crociana di un Parini arcade (e quella fubiniana, piú graduata, ma culminante nell’immagine di un Parini fiore dell’umanesimo arcadico), non lo sono poi nel considerare in maniera tutta negativa e solo in sede di gusto un’epoca ricca di fermenti estetici e storici (la stessa rivalutazione pariniana di quell’epoca ne accentuava la corrispondenza fra elementi letterari ed elementi diremo preilluministici).

Non si tratta certo di negare i limiti fortissimi di una letteratura che ha in sé i pericoli dell’evasività, della convenzionalità, del compiacimento puramente letterario, ma di considerare insieme i suoi elementi piú vivi e storici (e le sue migliori rese artistiche limitate, ma non spregevoli): elementi corrispondenti non solo alla rivolta antibarocca e all’impostazione di una nuova disciplina letteraria, ma alle ragioni piú interne di tutto ciò (razionalismo e nuova vita di costume e di cultura), alla tensione innegabile ad esprimere una nuova vita di rapporti socievoli, di recupero di una piccola realtà e di un’animata vita sentimentale e patetica a nuove meditazioni estetiche, con una gamma varia di velleità e di possibilità piú concrete che non è giusto involgere in un unico giudizio tutto negativo e in un rigido e assoluto distacco dall’epoca successiva, pur rilevando di questa la novità di impegno, di cultura e di poetica.

Né mi par giusto attribuire ai recenti rivalutatori dell’Arcadia l’idea assurda che essa costituisca «un momento ideale e quasi una categoria eterna dell’arte».

E, se è giusto distinguere chiaramente fra Metastasio e Parini, non è detto che nel primo manchi «un fremito solo, non si dice di grande poesia, ma di grande letteratura, o di una umana commossa letteratura» (fu tutto e solo un inganno il giudizio metastasiano di Rousseau o del Leopardi, o l’affermazione della sua qualità di poeta nello stesso De Sanctis?).

Penso anche qui che il modo di fare storia e critica del Petronio, che indubbiamente attrae per la sua decisione e sinteticità, sia in qualche modo troppo semplicistico e che una maggiore volontà di graduazione non sia frutto di spirito di compromesso, ma di maggior senso della concreta complessità dei fatti storici in ogni campo.

Anche perché, nel caso del Parini, certa brusca proclamazione di cesura rispetto alla critica precedente sembrerebbe piú giustificata là dove si affacciasse una tesi tutta nuova e la reazione tutta nuova a una diversa diagnosi, mentre, come ho già detto, non mancavano saggi critici che già chiaramente insistevano sulla novità della posizione e della poetica pariniana di fronte alla vera e propria epoca e poetica arcadica. E il ricordarlo chiaramente, oltretutto, non sarebbe stato male.

Mi pare in conclusione che nel libro del Petronio, pur cosí vivace e animato, e di cui comunque va valutato l’impegno di sistemazione totale e storica, si ripercuota una tendenza critica troppo ideologica, poco attenta alla realtà intera della poesia, e alla complessità e gradualità della storia e della letteratura.

Certo la storia e la critica non possono essere archeologia, nel senso deteriore della parola, comportano giudizio e intervento inevitabilmente orientati, ma non possono nemmeno essere prevaricazione sull’alterità del passato e correre il rischio di giudicare la realtà poetica solo come esatta corrispondenza a rigida coerenza e a rigida progressività ideologica.

Mi permetto, come postilla pro domo mea, di aggiungere infine che l’affermazione del Petronio secondo cui mi si attribuisce di «aver acutamente mostrato come Arcadia, illuminismo, preromanticismo si intreccino e mescolino per tutto il Settecento» non è corrispondente all’effettiva impostazione dei miei studi settecenteschi e anche a quella in particolare del mio Preromanticismo italiano in cui semmai si è qualche volta rilevato una eccessiva cesura fra primo e secondo Settecento e una eccessiva ipostatizzazione della tendenza preromantica. Naturalmente altro è dire che residui arcadici ritornino ad esempio nell’Ossian cesarottiano e che residui arcadici ed elementi illuministici si possano rilevare, ad esempio, nella formazione del Pindemonte, ma mi par chiaro che la mia preoccupazione evidente è stata sempre rivolta a scandire fasi e tendenze e non a postulare questo curioso caleidoscopio settecentesco.


1 Giuseppe Petronio, Parini e l’illuminismo lombardo, Milano, Feltrinelli, 1960.